Sostenibilità ambientale ed economia circolare nel tessile

L’industria tessile è in crescita, aumentano i volumi dei beni prodotti, il giro d’affari e il numero di persone che lavorano nel settore, ma il comparto è ancora molto ancorato al modello di economia “produci-usa-getta” e molti cominciano a sostenere la necessità di una riconversione verso un modello economico di tipo circolare. Arpatnews ha intervistato Laura Fiesoli, responsabile della Sezione Contemporanea del Museo del tessuto di Prato.

Abbiamo rivolto alcune domande sul tessile a Laura Fiesoli, Responsabile della Sezione Contemporanea del Museo del Tessuto di Prato, che si occupa di archiviazione, ricerca e progettazione nell’ambito del tessile contemporaneo e dell’innovazione di settore.


Diversi report sottolineano che l’industria tessile sia ancora molto ancorata ad un modello di economia lineare ma che ormai i tempi siano maturi per approdare ad un’economia di tipo circolare anche in questo comparto industriale, cosa ne pensa?

L’industria tessile ha un enorme impatto ambientale a livello globale. Sicuramente le logiche produttive sono ancora in gran parte ancorate ad una economia lineare, ma è già in atto un ricco dibattito sulla transizione all’economia circolare, con la conseguente nascita e proliferazione di molte buone pratiche, più o meno consolidate, di modelli di business, come emerge anche dai report della Ellen MC Arthur Foundation.

Uno dei maggiori ostacoli nella diffusione di modelli sostenibili è ancora oggi relativo alla questione dei costi finali dei prodotti e dell’egemonia del sistema del fast-fashion: ed esempio i lanifici che producono per i brand di pronto moda vivono una costante guerra al prezzo che spesso premia chi applica il prezzo più basso, a discapito della qualità e sicuramente della sostenibilità. Anche se molti brand come Zara o H&M si spendono in costose campagne di marketing sulla sostenibilità, si tratta piuttosto di campagne di comunicazione volte a migliorare l’appeal verso un consumatore consapevole, ma non sempre sono supportate da vere e proprie logiche sostenibili nella scelta della supply chain (catena di fornitura, ndr).

Tra le buone pratiche che possiamo citare troviamo grandi brand come Nike che ricicla le proprie scarpe sportive producendone materiali per la realizzazione di campi da gioco sintetici, oppure Patagonia e North Sails che hanno strutturato un sistema di vendita, rammendo, recupero e riciclo dei loro stessi abiti attraverso i punti vendita, o ancora GStar che da diversi anni propone la linea Raw for the Ocean che recupera le plastiche del mare, ed infine Uniqlo che seleziona i capi usati in parte per il riciclo ed in parte destinandoli ad associazioni benefiche in tutto il mondo.

Sul territorio toscano, pur non potendo citare veri e propri modelli di business consolidati, esistono importanti buone pratiche a livello di cluster. Un esempio è il progetto Detox promosso da Greenpeace ed oltre a questo l’impegno degli industriali per l’adozione dello standard promosso a livello internazionale GRS ovvero Global Recicle Standard ovvero una certificazione che provi quanti e quali materiali riciclati vengono utilizzati. Questa certificazione vuole essere non solo un pezzo di carta ma un modo per costruire i mattoncini di una supply chain tracciabile e con valori di sostenibilità effettivi e dimostrabili.

Progressi per ridurre gli impatti sull’ambiente, scarichi, emissioni in atmosfera, produzione di rifiuti, ecc. provenienti dalle industrie del tessile, ne sono stati fatti, almeno nel nostro Paese, ma cosa si potrebbe ancora fare ed in che tempi?

L’impatto è enorme ma sicuramente si può fare tanto. A partire dal trattamento dei rifiuti e degli scarti solidi fino alla depurazione delle acque. Già rispetto al passato si sono fatti enormi passi avanti con la raccolta differenziata di scarti di natura tessile, con l’immissione delle acque in circuiti di acquedotti con la possibilità di depurarle e riusarle per le lavorazioni industriali.

Molta parte di queste attività non riguardano solo il comparto industriale ma la gestione ambientale e sociale del territorio, quindi devono essere supportate dalla politica, dall’economia e dalle attività di cluster. Lasciare la risoluzione del problema in mano alle singole aziende è impensabile.

Secondo alcuni studi di settore (es report Fondazione Ellen Mac Arthur sul settore tessile), l’industria tessile non raggiunge alti livelli di riciclabilità e quando accade il riciclo consiste in applicazioni a cascata di valore inferiore, ad esempio, materiale isolante, imbottitura per materassi che sono difficilmente riutilizzabili e re-inseribili in nuovi processi produttivi, quindi destinati ad essere distrutti per sempre. Ritiene che questa situazione corrisponda al vero? Perché accade?

In gran parte dei casi è vero che il riciclo tessile non riesce ad essere un loop di lunga durata, almeno per ora. Oltre alla componente tecnologica, può dipendere anche dal fatto che ancora non è diffusa una parte del processo che invece è basilare, ovvero il design. Bisogna cominciare a pensare il prodotto già con l’idea di cosa succede alla fine del suo ciclo di vita, e questo tipo di progettazione non è ancora sviluppata. I designer spesso non conoscono i prodotti innovativi o non sanno come gestirli, è ancora un terreno giovane.

Per quanto riguarda il riciclo di fibre di nylon è interessante il caso dell’Industria Tessile Radici che è il più grosso produttore in Italia ed ha fatto recentemente un interessante progetto con Herno per realizzare un capo in nylon completamente differenziabile e smaltibile per la riconversione in plastica post consumo.

Il riciclo di fibre tessili è un lavoro complesso che richiede competenza e strutture industriali e che dovrebbe essere maggiormente valorizzato attraverso azioni politiche e leggi ad hoc che tutelino lo ‘scarto’ tessile dandogli un valore maggiore rispetto ad un comune rifiuto solido.

A Prato, dove da secoli si sono riciclati tessuti, cosa accade?

Prato è già di per sé un distretto della moda (oltre 6.000 aziende del T&A, cioè del comparto del tessuto e abbigliamento) con caratteristiche di sostenibilità: la sua tradizione millenaria è la lana rigenerata da scarti e da abiti usati, tradizione che ne ha fatto il più grande centro mondiale di raccolta e cernita per oltre un secolo. Oggi Prato ricicla circa 22.000 tonnellate di materiali tessili all’anno e li reimmette nel ciclo industriale, ha un sistema di depurazione delle acque per usi industriali già molto consolidato con 5 impianti e oltre 60 km di rete distributiva, persegue l’adesione a protocolli per l’eliminazione di sostanze inquinanti nei processi come il protocollo Detox.

La produzione di sostanze tessili necessita di una larga quantità di risorse non rinnovabili; ad esempio il cotone richiede una grande quantità di acqua ma anche un massiccio utilizzo di fertilizzanti e pesticidi e non migliore risulta la situazione guardando alle fibre sintetiche che richiedono grossi quantitativi di petrolio e che spesso, durante il lavaggio, rilasciano micro e/o nano-plastiche che impattano la risorsa idrica, mari e fiumi. Il consumatore è spiazzato, la scelta è difficile, dove è preferibile indirizzare i nostri consumi verso tessuti in fibre naturali o sintetiche?

Ad oggi esistono molte scelte alternative alle fibre ed ai materiali tessili tradizionali, anche se è impossibile trovare un’intera filiera ad impatto 0 chiaramente. Tuttavia sul mercato sono già presenti materiali ad alta sostenibilità, ad esempio fibre rinnovabili da coltivazioni controllate, oppure fibre da coltivazioni biologiche, fibre riciclate da materiali post consumo come la plastica delle bottiglie ecc. Certo è vero che, mentre come consumatori negli ultimi anni siamo stati spinti a pensare che scegliere materiali naturali sia meglio, ci siamo dovuti scontrare con il fatto che questi non sono sempre sostenibili, e che la loro versione ‘biologica’ abbia, come nell’alimentare, costi più alti che non tutti vogliono sostenere. D’altra parte, quando il poliestere rigenerato iniziava ad imporsi come alternativa ecologica delle fibre sintetiche è emerso il problema delle microplastiche scaricate dalle nostre lavatrici negli oceani. Il consumatore è spiazzato sia per via di una comunicazione spesso confusa su cosa sia effettivamente ‘circolare’, ma anche perché la moda suggerisce ancora un ricambio veloce dei trend che contrasta con la ‘durabilità’ che vuole essere un punto di forza della moda circolare.

Per approfondimenti:

Vedi l’articolo su Arpatnews >

SC

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