Pesticidi nel fiume Po, il rapporto Ispra

Per oltre dieci anni, è stata studiata l’evoluzione della contaminazione nel bacino del fiume più importante d’Italia. Alcuni pesticidi sono ancora presenti, pur essendo proibiti da decenni.

Pubblicato nel 2017, il rapporto Ispra Sostenibilità ambientale dell’uso dei pesticidi – il Bacino del Po illustra e analizza i dati emersi dal monitoraggio di alcuni erbicidi non più usati da anni (atrazina, simazina, alaclor) e che, a quanto rilevato, possono persistere nell’ambiente più di quanto stimato in fase di autorizzazione. Il monitoraggio esteso del bacino del Po (sviluppato nell’ambito del monitoraggio nazionale coordinato da Ispra che coinvolge le Regioni e le Arpa/Appa) ha consentito di studiare l’evoluzione della contaminazione a partire dal 2003.

L’atrazina, ad esempio – bandita da 25 anni – è ancora rilevata, anche se in basse concentrazioni, nei fiumi e nelle acque sotterranee. Mentre ci vogliono otto anni affinché la concentrazione della sostanza nel fiume Po si dimezzi, nelle acque sotterranee del bacino, invece, l’atrazina rimane stabile e a livelli circa 4 volte più alti rispetto ai corsi d’acqua. In queste, infatti, vengono a mancare quasi del tutto i meccanismi di degradazione e la concentrazione evolve con i tempi di ricambio estremamente lenti delle falde.

Cartografia del bacino del Po.

Le conclusioni ottenute per l’atrazina sono indicative di quello che può essere il destino ambientale di altri pesticidi: in particolare, per sostanze della stessa famiglia, come la terbutilazina, che è attualmente il principale contaminante del bacino del Po. Nel 2014, la sostanza è, infatti, presente nel 42,9% dei punti di monitoraggio delle acque superficiali e nel 5,4% di quelli delle sotterranee.
Analoga diffusione si ha per il metabolita desetil-tebutilazina.

È necessario inoltre considerare che nelle acque sono presenti miscele di sostanze diverse. Per alcune sostanze considerate “estremamente preoccupanti” non c’è una soglia di sicurezza per la salute e per l’ambiente: si tratta delle sostanze cancerogene, mutagene e tossiche per la riproduzione (CMR), delle sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche e, infine, degli interferenti endocrini. L’atrazina, per esempio, è un interferente endocrino.

4 pensieri su “Pesticidi nel fiume Po, il rapporto Ispra

  1. DIFFERENZA TRA PRESENZA DI SOSTANZE IN TRACCE, LIMITI, SOGLIE

    Come ho già avuto modo di commentare in merito alle riprese di un servizio trasmesso dal TG1 sullo stesso argomento – senza mettere ovviamente in discussione il valore del rapporto e dei sui contenuti tecnico-scientifici – credo sia necessario richiamare l’attenzione sugli aspetti comunicativi adottati dal sistema delle Agenzie anche in relazione alle ricadute in termini di responsabilità gestionali proprie delle agenzie ambientali nell’orientare scelte e decisioni in campo ambientale e sanitario.

    Sul rapporto mi preme dire che per valutarne meglio i contenuti, sarebbe utile argomentare i dati descrivendo i principi su cui si basano i limiti e le soglie delle diverse sostanze: in tutta Europa i valori limite e di soglia individuati sono finalizzati alla protezione dell’ambiente e alla tutela della salute e assolutamente rispettosi del “principio di precauzione”; inoltre gli elenchi di sostanze, e i relativi valori limite, sono condivisi sulla base di rigorose procedure. In una rappresentazione di tutti i dati relativi a queste sostanze – sia quelli sotto il limite di rilevabilità della sostanza, sia quelli nei limiti soglia, sia quelli oltre il limite – sarebbe quindi più pertinente parlare di “livelli di concentrazione” più che di “livelli di contaminazione”.

    Poi c’è il tema dei nuovi contaminanti e dei distruttori endocrini, le cui determinazioni necessitano di prove scientificamente rigorose per esser valutati e definiti, così come l’effetto delle loro miscele. L’Ocse e la Commissione europea hanno attivato gruppi di lavoro specifici e prodotto documenti dai quali emerge che, per definire la pericolosità di una sostanza in ambito regolatorio, è assolutamente necessario utilizzare test e strategie di valutazione convalidate e riconosciute a livello internazionale. Senza queste premesse, tutte le informazioni, anche pubblicate su riviste peer-reviewed, costituiscono un utile strumento per il progresso scientifico e conoscitivo, ma non per trarre conclusioni sulle classificazioni e per supportare decisioni regolatorie.

    Per quanto attiene poi la presenza di fitofarmaci nelle acque sotterranee, sarebbe certamente utile definire meglio i contesti territoriali e gli acquiferi; non tutte le falde sotterranee nel bacino padano hanno concentrazioni di atrazina di oltre 4 volte i valori delle acque superficiali, ad esempio non è così in Emilia-Romagna per le caratteristiche del suo acquifero profondo: infatti non tutte le falde sotterranee presentano la medesima criticità, in ragione della loro livello di profondità, del loro utilizzo o del loro isolamento dal flusso idrico del sottosuolo.

  2. SCIENZA E COMUNICAZIONE

    Sento il dovere di intervenire nella discussione, per evitare ulteriori fraintendimenti nell’interpretazione di uno studio, per altro molto semplice dal punto di vista concettuale e chiaro negli obiettivi.

    C’è, ormai, consapevolezza, non solo nel mondo scientifico, che la sostenibilità ambientale, parlando di inquinamento chimico, non può basarsi semplicemente sul rispetto di limiti di concentrazione, che pure hanno un’indiscutibile importanza. La sostenibilità, come viene illustrato chiaramente nel rapporto (che forse dovrebbe essere letto con più attenzione), è definita dalla capacità dell’ambiente di ritornare a condizioni non perturbate (resilienza), o quanto meno di non allontanarsi da queste tanto da modificare le condizioni che hanno reso possibile il mantenimento degli ecosistemi nelle forme che conosciamo. A definire i limiti della sostenibilità sono impegnati studiosi di livello mondiale, nei principali istituti scientifici e nelle università. Il problema, parlando di inquinamento chimico, è molto complesso, tanto che, a differenza di altri grandi temi (es. riscaldamento globale), non si è in grado di stabilire soglie. È una delle grandi questioni aperte. Con le oltre 100.000 sostanze immesse sul mercato è iniziato un esperimento inedito (ma vorrei dire incredibile), in cui l’uomo è l’artefice e nel contempo la cavia. Siamo ben lontani dal poterne prevedere gli esiti. Per questo l’Europa ha varato la più grande e innovativa norma, il REACH, che dovrà in primo luogo consentire di migliorare la conoscenza, ancora largamente inadeguata.

    Consapevoli dei forti limiti della conoscenza in questo campo, abbiamo cercato di fornire un piccolo contributo, limitato nello spazio e ancora più negli obiettivi. Le informazioni a disposizione consentivano tutto ciò, grazie al lavoro svolto in oltre dieci anni dal Sistema delle agenzie, e abbiamo cercato di capire cosa succede a un inquinante nell’ambiente, anche quando il suo utilizzo è cessato. Si è presa a riferimento una sostanza non più utilizzata da decenni (atrazina). Lo studio voleva comprendere la risposta complessiva di un grande bacino in termini di tempo di persistenza dell’inquinante, in modo da individuare un trend, e comprendere quanto significative possano essere ancora le concentrazioni misurate.

    Questo è stato lo studio. Non ripeto le conclusioni, che tutti possono consultare direttamente.

    Venendo alla prima questione posta dal Dott. Bortone, quella sui limiti e sulla loro cautelativa.
    Parlando di pesticidi nelle acque, come noto, ci sono limiti per le acque potabili (0,1 e 0,5 µg/L per la singola sostanza e per la somma). Tali limiti, che negli anni ’80 corrispondevano grosso modo alla capacità analitica, non sono derivati su base tossicologica, ma sono espressione della volontà del legislatore (Europa). Il loro significato era: non ci devono essere residui di pesticidi nelle acque. I pesticidi, infatti, sono sostanze generalmente artificiali, non naturalmente presenti nell’ambiente. Migliorando le prestazioni dei laboratori, essi sono diventati limiti amministrativi, utili a gestire il problema, hanno perso (consapevolmente) il loro significato iniziale.

    Per espressa volontà di alcune Arpa, nel rapporto pesticidi, non si è più fatto il confronto con tali limiti, considerati troppo penalizzanti. Non bisogna dimenticare, però, che tali limiti sono tuttora limiti autorizzativi. In seguito all’uso, i pesticidi non devono lasciare nelle acque residui superiori a tali concentrazioni.

    Il confronto viene fatto ora con gli standard di qualità ambientale. Limiti derivati su base tossicologica, secondo le norme e le indicazioni EU.

    Il punto è che l’Europa ha definito tali limiti solo per poche sostanze e per pochissimi pesticidi. Limiti che a volte sono più elevate, ma spesso sono notevolmente più bassi di quelli dell’acqua potabile. Ne cito solo alcuni: Chlorpyrifos ha un limite medio annuo pari a 0,03 µg/L; Endosulfan: 0,0005; Trifluralin: 0,03; ecc. fino ad arrivare in alcuni casi a valori veramente bassi 10^-5 µg/L. Questo dice l’ecotossicologià, almeno nella forma a noi nota.

    Ci sono poi limiti nazionali per un certo numero (sempre limitato) di pesticidi. Il legislatore nazionale, inoltre, ha stabilito un limite di default, da applicare in mancanza di limiti specifici (0,1 µg/L e 1,0 µg/L per la singola sostanza e la somma dei pesticidi). Ora, è tutt’altro che dimostrato che tali limiti siano sempre cautelativi, perché non sono tossicologicamente basati e rilassano persino il limite (somma) delle acque potabili.

    In fatto di limiti, pertanto, siamo ben lontani dal poter dire che essi sono condivisi e rispettosi dell’ambiente e basati sul principio di precauzione.

    Ma non è questo, come noto, il solo problema dei limiti.
    Alcune sostanze, infatti, sono considerate “senza soglia” di pericolo, sostanze per le quali non può esser stabilito un “livello accettabile”, tra queste ci sono ad esempio le sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche (PBT) o molto persistenti e molto bioaccumulabili (vPvB), molte sostanze cancerogene, mutagene e tossiche per la riproduzione (CMR), gli interferenti endocrini (IE).
    Queste sostanze che il Regolamento REACH chiama “estremamente preoccupanti” non dovrebbero più essere autorizzate nei pesticidi (e dovunque, salvo eccezioni). Il processo avviato con il REACH ha portato all’identificazione di circa 170 di queste sostanze. Nella SINLIST del International Chemical Secretariat (autorevolmente riconosciuta a livello mondiale) sono elencate oltre 900 sostanze di questo tipo.
    Una stima ragionevole è che in commercio ce ne dovrebbero essere oltre 2000. Si comprende bene che siamo ben lontani dal poter dire che conosciamo adeguatamente i problemi derivanti dalle sostanze chimiche.

    Con lo studio non si voleva certo sollevare il caso Atrazina, saremmo molto in ritardo. Semplicemente abbiamo preso la sostanza come esempio, soprattutto per l’abbondanza di dati a disposizione e perché fuori commercio da anni. Atrazina, però, è un riconosciuto IE, è una sostanza senza soglia. Possiamo dire che i livelli di concentrazione ancora presenti non destano alcuna preoccupazione, considerando le dimensioni dell’area studiata e il complesso ecosistema esposto per anni, e l’uomo?

    Voglio solo rammentare che proprio la scorsa settimana la Commissione EU ha infine deciso sui criteri per l’individuazione degli IE (ci sono ancora da passare altre fasi: parlamento, ecc.). C’è ora appena lo strumento per non agire più solo sulla base del “caso per caso” e c’è tutto uno screening da fare su quanti potranno essere gli IE, parlando solo di pesticidi.

    Per quanto riguarda il tema delle miscele, ormai se ne è parlato tanto, che non c’è bisogno da aggiungere molto. Al riguardo, si vedano le posizioni dei principali studiosi, ma anche quella dei comitati scientifici Europeie della Commissione stessa.

    C’è un ultimo aspetto relativo alla pericolosità delle sostanze che voglio toccare. Gran parte dei pesticidi sono sul mercato senza una classificazione armonizzata (operata dagli organismi competenti), che può arrivare anche dopo molti anni. A livello europeo si sta cercando di mettere in fase il processo di autorizzazione dei prodotti fitosanitari (che compete a EFSA) con la classificazione (che compete a ECHA). Tuttora molte sostanze hanno una classificazione basata sugli studi delle imprese, accettata o meno in sede di autorizzazione, ma che resta comunque una autoclassificazione. Non è l’ultimo dei problemi. La classificazione armonizzata della terbutilazina (una sostanza a caso) è arrivata solo nel 2015, dopo più o meno trenta anni dall’immissione in commercio.

    A fronte dei problemi elencati, possiamo dire che i limiti ambientali ci cautelano e si ispirano al principio di precauzione? Penso proprio di no, se qualcuno si sente di poterlo affermare lo faccia.

    Uso raramente il termine scienza, lo faccio con grande esitazione, con timore reverenziale. In questi anni ho tuttavia compreso che la scienza stessa è molto titubante, si muove con estrema cautela, evidenziando sempre le incertezze e fornendo più dubbi che risposte.
    Nel campo del rischio delle sostanze chimiche siamo largamente in questa situazione. Una scienza poco eclatante, molto dimessa, cerca di far luce sugli innumerevoli (vorrei dire infiniti) problemi. Procedendo un po’ a macchia di leopardo, certo in modo non omogeneo. Lasciando indietro grandi problemi irrisolti.
    La scienza purtroppo è ancora ben lontana dall’offrirci tutte le certezze e le garanzie necessarie in tema di rischio chimico.

    In questo contesto ci muoviamo. Il SNPA può fare molto (molto ha già fatto) per portare il proprio contributo. Con i dati di monitoraggio dei pesticidi nelle acque abbiamo fornito una tale massa di informazioni, che è possibile ora (non sempre) argomentare su basi meno generiche e qualitative.

    Il vero problema è che ancora non abbiamo piena coscienza di questo. Esitiamo a parlare di dati. Tuttora si autorizzano i pesticidi quasi essenzialmente sulla base di previsioni modellistiche dell’esposizione. Il dato di monitoraggio (lo dico ormai sulla base di lunga esperienza) è quasi un intruso che si deve giustificare ogni volta. Quando ogni organismo scientifico, ma anche regolatorio (ma vorrei dire semplicemente il buonsenso) raccomanda l’uso retrospettivo dei dati ambientali.

    Ovviamente i portatori di interesse sanno bene questo, e non perdono occasione per trovare punti di debolezza (che pure ci sono). Quello che sorprende, tuttavia, è che le maggiori difficoltà vengano dal mondo delle istituzioni. Anche da chi produce i dati. Questo sinceramente fatico a comprenderlo. Non perché non ci sia spazio per criticare: direi che criticare è doveroso. Le critiche spesso, però, non hanno molto di scientifico, sembrano più ispirate a posizioni preconcette, a non sollevare problemi.

    Il problema, caro Dott. Bortone, non è di comunicazione, che pure si può e si deve migliorare. Il problema è che lo studio, purtroppo, a volte dice cose sgradite. Ma questo è l’obiettivo di chi studia: conoscere i problemi per poterli risolvere. I problemi non si risolvono negandoli.

    Con il monitoraggio dei pesticidi nelle acque il SNPA ha messo in piedi uno strumento molto utile e potente per dirimere (almeno) alcune delle questioni sul rischio dei pesticidi. Lo strumento è largamente incompleto. In Francia, per esempio, hanno un monitoraggio delle acque molto più esteso e capillare, e cercano circa 200 sostanze in più di quanto facciamo noi, e trovano pesticidi in quasi tutti i punti di monitoraggio. Lo dicono chiaramente. Da noi è un problema inserire nel monitoraggio alcune sostanze che altri da sempre cercano. Comprendo le ragioni economiche ed organizzative, meno le giustificazioni scientifiche, in ogni caso non ci si può bloccare davanti a queste.

    Il problema è di migliorare questo strumento, operando effettivamente a rete. Facendo sinergia e ottimizzando le azioni. Evitando che un terzo del territorio nazionale non fornisca dati, e aggiornando sempre il monitoraggio, che da nessuna parte è completamente adeguato. Non è pensabile che ogni Regione (o Agenzia) operi in proprio. Per questo ora c’è il SNPA, si deve passare dalle dichiarazioni di principio alla pratica.

    Nel campo delle sostanze chimiche si opera tuttora con grandi lacune conoscitive, noi stessi in Italia abbiamo appena aperto uno spiraglio sul tema dell’inquinamento ambientale da pesticidi e c’è tantissimo da fare.

    No, il problema non è di comunicazione.

  3. E’ UN PROBLEMA DI COMUNICAZIONE

    Nel ribadire il grande valore dello studio sul piano tecnico-scientifico, resto dell’idea che ci sia un problema di comunicazione quando non si fa distinzione tra presenza di una sostanza in tracce o nei limiti stabiliti da standard di qualità proposti e approvati da organizzazioni internazionali e nazionali – parlo di “istituzioni”, delle quali anche io e lei facciamo parte – la cui missione è la tutela della salute e/o dell’ambiente.​ Più in generale il problema è relativo all’impegnativo rapporto tra gli obiettivi e i metodi della ricerca e le esigenze e le responsabilità della gestione operativa. Un rapporto su cui il Snpa è chiamato a dare un contributo sfidante.​

    Così come è un problema di comunicazione quando non si legano i risultati delle indagini analitiche alle azioni da mettere in campo per rimuovere o minimizzare la presenza di sostanze inquinanti. Perché se gli addetti ai lavori hanno ​colto chiaramente ​il messaggio del lavoro, ​la potenza dei metodi di ​prevenzione e del Reach​, spesso non è così per chi legge o ascolta trasmissioni generaliste che, come abbiamo avuto modo di sperimentare proprio in relazione a questo rapporto, ​ha colto altri aspetti avvalorando l’idea di un sistema di prevenzione e di controllo inefficiente, a tratti addirittura omissivo e reticente.​
    Comunque, sia il tema della differenza tra presenza di sostanze nelle matrici ambientali, limiti e soglie, sia il tema della comunicazione dei dati ambientali saranno al centro della Summer school per il personale apicale del Snpa che si terrà a Cagliari a fine settembre, con l’obiettivo di accelerare il processo di integrazione tra le diverse componenti del sistema Ispra/Arpa/Appa a beneficio anche della percezione da parte dei cittadini in termini di credibilità e autorevolezza dell’intero insieme.

    Resto anche dell’idea che le ragioni scientifiche debbano guidare le scelte per l’inserimento delle diverse sostanze nel monitoraggio. E’ giusto che esista una lista di sostanze prioritarie costruita su dati solidi di pericolosità e di rischio. Per tornare all’esempio dell’atrazina – ma questo può valere per altre sostanze per le quali la ricerca e lo studio degli effetti sull’uomo e sull’ambiente è in continuo divenire – dice che “è un riconosciuto IE” (IE, interferente endocrino). Ebbene, all’immensità dell’incertezza scientifica dovremmo anche aggiungere questa “classificazione” come “distruttore endocrino” (mi permetto di utilizzare la definizione di “distruttore”, proposta dall’Organizzazione mondiale della sanità, e non di “interferente”, che non ha ragione di esistere dal punto di vista della biologia e dell’endocrinologia). L’atrazina – così come altre sostanze – è stata classificata come “possibile cancerogeno nell’animale”, sulla base dei risultati ottenuti sperimentalmente nei roditori, nei quali era stato identificato un meccanismo d’azione di distruzione endocrina. Negli anni questo meccanismo è stato definito “non rilevante nell’uomo” (e meno che meno nelle specie animali che popolano le nostre acque).

    Forse oggi, in un’epoca in cui la Scienza riconosce un’importanza fondamentale alla conoscenza del modo e del meccanismo d’azione, per la classificazione di pericolosità delle sostanze, questa sostanza non sarebbe stata classificata e non avrebbe costituto una priorità nella lista delle sostanze pericolose, così come la terbutilazina, strutturalmente correlata. Forse. Chissà. E’ l’incertezza della Scienza.
    La stessa che ci dice che non abbiamo elementi per asserire che i distruttori endocrini non abbiano soglia e che persino i composti genotossici ne possono mostrare una, in dipendenza degli eventi che precedono il danno al patrimonio genetico.

    Sono, comunque, d’accordo con lei che i distruttori endocrini debbano costituire il fulcro di azioni regolatorie più stringenti e più mirate. Ma, allora dovremmo parlare non solo di pesticidi, ma di altre sostanze presenti nelle acque, come ad esempio alcuni farmaci.
    Io sono uomo di istituzioni, come lo è lei, e le assicuro che non c’è timore di divulgare dati sgraditi. C’è prudenza, questo sì, ancorata a un’oggettiva visione d’insieme che permetta di andare oltre la mera rilevazione/descrizione del dato; a mio avviso il Sistema assolve appieno il proprio ruolo quando completa l’azione di controllo e di monitoraggio fornendo anche indicazioni di interventi operativi di gestione e mitigazione del rischio e di tutela dall’esposizione ai contaminanti ambientali.

  4. I rapporti ISPRA in materia di pesticidi sono migliorabili ma sicuramente utili.
    Tengono vivo il problema, anche se non allarmante, da non sottovalutare.
    Si possono cercare le definizioni più appropriate per descrivere un fenomeno accertato di residualità più o meno spinta nelle acque superficiali e sotterranee d’ Italia fra presenti, diversamente assenti, contaminanti o altro, ma è un dibattito vecchio, non perdiamo di vista alcuni nodi irrisolti da molti anni in questa materia e chiediamoci perché rimangono tali.
    Metà delle regioni italiane non hanno un monitoraggio strutturato dei pesticidi nelle acque. Dove per strutturato si intende un monitoraggio pianificato sia per i corpi idrici da monitorare che per le sostanze da ricercare. La maggior parte dei casi di stato ecologico non buono per pesticidi dei corpi idrici è causato da sostanze attive non esplicitate in tabelle, ma ricadenti nella generica definizione “altri pesticidi” come il glifosate, risultato di una attenta analisi di rischio che deve necessariamente guidare le scelte d’indagine.
    In Italia non esiste un sistema in grado di monitorare i consumi di fitofarmaci sul territorio come sarebbe invece necessario per verificare le politiche di riduzione dell’uso di queste sostanze in osservanza alla normativa europea sull’uso sostenibile dei pesticidi. Ci si affida ai dati di vendita ISTAT che vengono forniti in forma aggregata (erbicidi, fungicidi, insetticidi), decisamente poco adatta allo scopo.
    In Italia da anni esiste l’obbligo da parte delle aziende che utilizzano prodotti fitosanitari della tenuta del registro dei trattamenti, relegato ancora oggi da oltre 20 anni a mero adempimento burocratico, ma se adeguatamente e facilmente informatizzato potrebbe rappresentare un insostituibile strumento informativo per le istituzioni e le autorità di controllo.
    Dal 2015 ogni azienda agricola ha l’obbligo di adottare misure di lotta integrata, ma le verifiche da parte delle istituzioni regionali sono limitate esclusivamente alle aziende che aderiscono ai programmi di lotta integrata “volontaria”, che è quella per cui si percepiscono aiuti economici. Quindi, una situazione solo parzialmente sotto controllo.
    Riguardo alle aree di salvaguardia e alle zone di protezione delle acque destinate alla produzione di acque potabili, previste dalla legge, solo pochissime regioni in Italia hanno emanato regolamenti e si sono dotate di adeguati sistemi di controllo.
    Pochissime Regioni hanno applicato i Piani di Azione per l’uso sostenibile dei pesticidi disponendo la riduzione o eliminazione dei pesticidi più pericolosi per l’ambiente e la salute, come servirebbe in alcuni contesti.
    Se da un lato molte Agenzie mettono a disposizione del vasto pubblico le proprie banche dati e i propri elaborati sul monitoraggio delle acque, dall’altro spicca l’assenza generalizzata di una informazione dettagliata sulla qualità delle acque potabili da parte dei gestori e anche delle ASL.
    Questi sono temi su cui vorrei discutere nel sistema delle agenzie, anche per ribadirne un ruolo di stimolo nei confronti di chi è tenuto a prendere decisioni. Talvolta non è necessario aspettare che si esprima la “scienza ufficiale”, anzi è molto probabile che aspetti proprio noi.
    Anch’io sono un uomo delle istituzioni non un fanatico ecologista.
    Alessandro Franchi
    ARPA Toscana

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