I ghiacci tra passato e futuro

Sulla rivista Micron, Pietro Greco evidenzia alcuni effetti in atto del cambiamento climatico, a partire dalle temperature anomale che si stanno registrando al circolo polare artico e ai loro effetti sulla dinamica dei ghiacci.

La notizia di cronaca è che, nei giorni di fine luglio 2018 fa più caldo a Londra o a Stoccolma che a Napoli. Il circolo polare artico sta sperimentando temperature se non inedite, certo anomale. È il frutto o, almeno, è in sintonia con quanto ci si deve attendere con i cambiamenti climatici in atto, sostengono gli esperti. Non è il disagio di una settimana. Temperature di questo genere possono avere effetti sulla dinamica dei ghiacci. Sia di quelli che ricoprono – sempre meno a lungo – l’Oceano Artico sia di quelli che rendono bianca la Groenlandia sia, infine, di quelli che farciti di polvere e terra e idrati di metano formano il permafrost sulla terraferma.

La domanda è: se queste temperature alte dovessero persistere a lungo e riproporsi con grande frequenza nei prossimi anni, che ne sarà di tutti questi ghiacci? Non è semplice prevederlo. Anche se i glaciologi in genere accreditano di una certa resilienza l’acqua: per sciogliersi se è solida o per solidificarsi se è liquida, impiega molto tempo.

Non è esattamente così. È scritto nelle barriere coralline che si trovano a grandi profondità – a 110 e anche a 130 metri sotto il livello del mare – lungo le coste dell’Australia: nell’attraversare i suoi stati l’acqua può presentare dinamiche molto veloci. Molto più veloci di quanto gli esperti non abbiano finora ritenuto.

I coralli australiani ci dicono che intorno a 22.000 anni fa, nel pieno dell’ultima grande glaciazione, il livello dei mari era inferiore di 110 metri rispetto a quello attuale. Il motivo era molto semplice: il raffreddamento del clima aveva trasformato in ghiaccio una parte enorme dell’acqua presente sulla superficie terrestre. L’acqua solidificata aveva coperto grandi aree, compresa gran parte dell’Europa. Tutta quest’acqua era stata sottratta in buona parte ai mari che, per l’appunto, si erano ritirati.

Il processo era durato molte migliaia di anni. Ma, come documenta un articolo apparso di recente sulla rivista Nature, non era terminato. Intorno a 22.000 anni fa l’aumento dei ghiacci subisce un’ulteriore, rapidissima accelerazione. In meno di 500 anni il livello dei mari subisce una nuova, drastica diminuzione: di 17 metri. Più o meno 3,5 metri per secolo. Un’enormità, appunto. Che ha sconvolto gli ecosistemi. Imponendo, per esempio, ai coralli australiani di trovare in poco tempo un ambiente adatto alla sopravvivenza almeno venti metri più in basso. Poi è iniziato il disgelo. E nel corso di poche migliaia di anni il livello dei mari ha raggiunto l’altezza attuale: 130 metri più su.

La ricerca di Nature è importante per una serie di motivi. Porta nuove conoscenze sull’adattamento delle specie così come sulla storia climatica del pianeta Terra. Ma l’importanza maggiore riguarda proprio la resilienza dei ghiacci. L’acqua dei mari può trasformarsi rapidamente in ghiacci. Più rapidamente di quanto finora si è ritenuto. Ma è vero anche il contrario. I ghiacci possono sciogliersi con relativa rapidità a causa dei cambiamenti climatici.
Ora ritorniamo alle cronache dei giorni scorsi. Alle temperature insolitamente alte registrate nel Nord Europa. Che, certo, faranno soffrire un po’ i popoli eredi dei vichinghi. E non poco i popoli nomadi delle terre più settentrionali. In Svezia, per esempio, i Sami stanno emigrando alla ricerca di terre più fresche in un settentrione ancora più estremo. Sono, a tutti gli effetti, migranti ambientali.

Ma non c’è solo questo. I glaciologi temono infatti l’effetto “trigger”. Il grilletto che dà il là all’improvvisa evoluzione della dinamica dei ghiacci. In questo caso dobbiamo prevedere non il loro rapido aumento, ma la loro rapida diminuzione. Nel qual caso la prospettiva di avere un aumento del livello dei mari di un metro di qui a fine secolo rispetto a quello dell’era pre-industriale non è uno scenario improbabile. E un metro non sarebbe poco. Metterebbe miliardi di persone che vivono lungo le coste di fronte a un’alternativa: o adattarsi, costruendo dighe come hanno fatto gli olandesi ma in numero enormemente superiore e con un know-how tutto da costruire, o migrare. Come hanno iniziato a fare molti abitanti delle piccole isole dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Indiano.

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