Carlo Cacciamani

Con ItaliaMeteo un quadro più chiaro per il settore meteo

Il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente comprende, com’è noto, diverse agenzie ambientali regionali che offrono servizi meteo e il cui ruolo nel complesso sistema di gestione dei rischi idrogeologici non è affatto trascurabile. Di evoluzione delle previsioni meteo e della necessità di adattarsi ai cambiamenti climatici – con la crescente frequenza di eventi meteo estremi come quello all’origine del recente alluvione nelle Marche – abbiamo discusso con Carlo Cacciamani, direttore dell’Agenzia nazionale per la meteorologia e la climatologia (ItaliaMeteo).

Direttore, c’è un rapporto chiaro di causa-effetto tra cambiamenti climatici e gli eventi meteo estremi che colpiscono il territorio italiano?

«Non è facile stabilire se un singolo evento possa essere causato dal cambiamento climatico, però – ragionando in termini statistici – l’aumentata frequenza di questi fenomeni è sicuramente frutto del cambiamento climatico. Con un’atmosfera mediamente più calda, e una maggiore umidità in atmosfera favorita dall’incremento della temperatura del mare e dalla conseguente maggiore evaporazione, aumenta il rischio che si generino fenomeni convettivi molto intensi. Nel caso specifico degli eventi del 15-16 settembre, l’aria calda e umida proveniente dal Tirreno ha superato gli Appennini, provocando temporali molto intensi nelle valli marchigiane».

Cos’è un temporale autorigenerante, espressione con cui molti italiani hanno familiarizzato in queste settimane?

«La dinamica dei temporali è legata a fenomeni convettivi, cioè, semplificando, di trasporto rapido verticale di masse d’aria. Durante un temporale, c’è un moto di salita delle masse d’aria e poi di discesa all’interno della nube. In presenza di correnti orizzontali che determinano lo spostamento veloce dei temporali, questi scaricano una certa quantità d’acqua in un’area (poniamo, 20-30 millimetri in un’ora) e poi muovendosi sul territorio, danno luogo a un “treno” di temporali che il più delle volte non sono così impattanti. Se invece l’orografia del territorio, unita a determinate condizioni atmosferiche, non favorisce il moto in orizzontale, il temporale si autorigenera nella stessa zona, provocando fenomeni come quello registrato nella valle del Misa, dove si stima si siano abbattuti più di 400 millimetri di pioggia in 7-8 ore».

Con le tecnologie attuali, è possibile prevedere questo tipo di eventi?

«Al momento è possibile prevedere questi eventi, con una localizzazione che sia abbastanza precisa, soltanto con un anticipo molto breve, dell’ordine di mezz’ora, un’ora. In base alle attuali tendenze nell’evoluzione dei modelli previsionali, ci si auspica di estendere la capacità previsionale fino a un anticipo temporale maggiore, anche di 4-5 ore, più idoneo per mettere in atto misure cautelative, a patto che il monitoraggio del quadro mutevole delle previsioni sia continuo».

Quando è possibile dare l’allarme con sufficiente anticipo, come ci si deve comportare?

«La riduzione del rischio si poggia su tre pilastri. Il primo – l’abbiamo citato – è la capacità previsionale. Il secondo è comunicare il rischio nel più breve tempo possibile, migliorando sia i sistemi tecnologici che i linguaggi. Affinché la comunicazione del rischio funzioni nel breve tempo necessario ad adottare delle precauzioni, bisogna ad esempio sfrondare i messaggi da un eccesso di dettagli tecnici e utilizzare gli strumenti giusti affinché si raggiungano tempestivamente le persone esposte al rischio. Infine, il terzo pilastro è rappresentato dalla formazione dei cittadini. Che innanzitutto devono conoscere con precisione quali sono le aree sottoposte a rischi idrogeologici specifici (e da questo punto di vista la conoscenza disponibile – elaborata tra gli altri da Ispra – è già abbastanza accurata, poi deve tradursi in una mappatura dei punti di rischio a livello comunale). E poi i cittadini e tutti i soggetti coinvolti devono sapere cosa fare: le azioni e le misure, a seconda del livello di allerta, possono comprendere il divieto di accesso alle aree a rischio – con la chiusura di parchi cittadini, sentieri naturalistici, ponti e strade – evitare di camminare lungo gli argini dei fiumi o anche rinunciare del tutto a uscire se non in casi di necessità, evitare di prendere l’auto o di scendere in cantine e garage, rifugiarsi ai piani alti degli edifici».

Come si prevede che evolverà il sistema delle previsioni con lo sviluppo di ItaliaMeteo?

«In tutti i maggiori paesi europei c’è un servizio nazionale meteorologico civile, in Italia finora ne abbiamo avuto solo uno militare, più iniziative a macchia di leopardo affidate a Regioni, Arpa, Protezione civile, Cnr. Eppure i beneficiari dei servizi meteo sono numerosi, se pensiamo alle filiere produttive che ne usufruiscono: gli agricoltori, ad esempio, ne hanno bisogno per calibrare gli apporti irrigui e l’utilizzo di prodotti chimici, gli imprenditori delle energie rinnovabili per individuare le zone più promettenti per l’installazione di parchi fotovoltaici, e potrei continuare a lungo. Dunque un servizio meteo civile è necessario, e le iniziative, pur lodevoli sotto molti aspetti, avviate da diversi soggetti dovrebbero essere inserite in un quadro unitario. Non si pretende affatto di interrompere queste esperienze specifiche, tuttavia, se si vuole competere con altri Paesi europei, ad esempio per accedere con più efficacia a finanziamenti comunitari, è molto meglio presentarsi anche con un marchio nazionale. Inoltre c’è bisogno di uno sforzo per uniformare linguaggi e modalità da territorio a territorio, per facilitare l’utilizzo di questi servizi. Una mia collega, esperta di comunicazione, ha detto una volta che è come se in questo ambito avessimo tanti dialetti e si dovesse ora costruire l’italiano. Questo impegno comune dovrebbe portare anche a un’accelerazione dell’evoluzione tecnologica del sistema di previsioni meteo nel nostro Paese».

(a cura di Luigi Mosca)

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