Transizione ecologica, sostenibilità ambientale, economia circolare nel settore tessile moda

Tra il 19 e il 25 aprile 2021 si terrà la Fashion Revolution Week, quest’anno l’evento mette in connessione i diritti umani con i diritti dell’ambiente. Fashion Revolution, il più grande movimento esistente di attivismo nella moda, sostiene che lo sfruttamento umano e il degrado dell’ecosistema che, oggi, vediamo intorno a noi sono “il prodotto di secoli di colonialismo e sfruttamento globalizzato, derivanti da una visione del mondo in cui la prosperità umana e ambientale sono visti come isolati e scollegati gli uni dagli altri”.

Certamente la Pandemia che stiamo vivendo ha mostrato quanto sia importante la nostra salute, ma anche quella del Pianeta, tanto che una non può prescindere dall’altra: “one health, one planet” (una sola salute, un solo Pianeta).

Questo è il momento di riflettere anche sui nostri comportamenti. Con riferimento alle nostre abitudini di acquisto di abbigliamento, chiediamoci se siamo ancora tentati dal continuo turn over (cambio) degli outfit e dei trends (tendenze), in un “mordi e fuggi” frenetico, oppure se pensiamo che sia giusto ripartire con una maggiore consapevolezza, prendendo in considerazione, nelle nostre scelte di consumo, anche la tutela dell’ambiente in cui viviamo.

Siamo chiamati ad affrontare sfide importanti come quella del cambiamento climatico e negli ultimi tempi, la transizione ecologica è entrata nel nostro “bagaglio” linguistico e la parola sostenibilità è letteralmente esplosa.

La Fondazione Ellen MacArthur, da anni sul tema dell’economia circolare, altra questione alquanto importante, nella sua pubblicazione, “The circular economy: a transformative Covid-19 recovery strategy”, punta l’attenzione sulla necessità di dare avvio a nuovi modelli economici in grado di fare ripartire, dopo la Pandemia, l’economia, rendendola più circolare e resiliente.

Tra i settori dove sembra esserci un buon potenziale, la Fondazione annovera il tessile moda, che, già prima del Covid 19, stava muovendosi nella direzione della sostenibilità e dei modelli economici circolari per iniziare ad affrontare le questioni legati alla crisi climatica e ai problemi ambientali.

abiti

Per fare fronte a questa situazione, le imprese di questo comparto produttivo avevano deciso di intraprendere la strada dell’”autoregolamentazione”, così, nel 2019 durante il G7 di Biarritz, in Francia, è stato lanciato il Fashion Pact, mentre, nel 2018, molti marchi avevano firmato la Carta per la moda sostenibile e a favore del clima. Nel nostro Paese, il “Manifesto della sostenibilità della moda italiana” è del 2012.

Circa un mese fa, è uscito il BoF Sustainability Index, relativo al 2021, si tratta di un report che traccia i progressi del comparto della moda verso gli ambiziosi obiettivi di sostenibilità da raggiungere, preferibilmente, entro il 2030. Purtroppo emerge che l’autoregolamentazione al momento non ha dato grossi risultati, neppure in quelle aziende che dispongono di maggiore risorse finanziarie ed economiche

Quest’anno sono state prese in esame 15 delle più grandi aziende della moda, che operano in tre diversi ambiti: lusso, high street e abbigliamento sportivo.

L’Indice conferma, anche per quest’anno, che le azioni realizzate da grandi brands della moda sono in ritardo rispetto alle ambizioni dichiarate, anche tra i marchi più grandi e con più risorse.

In estrema sintesi, emerge è che le aziende hanno raggiunto i maggiori progressi nell’analisi e nella comprensione del loro impatto e nel fissare obiettivi per affrontare le emissioni di gas serra ma, al contrario, rimangono deboli nell’affrontare il tema dei rifiuti e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.

Certamente, l’Indice ha i suoi limiti, infatti, districarsi nel labirinto di informazioni, senza un un linguaggio standardizzato o un reporting regolamentato e un quadro normativo definito, ma ci rende comunque un quadro di insieme piuttosto interessante.

Dal generale al particolare. Se l’indice ci riporta un quadro non proprio idilliaco, cosa accade sui territori ? Come stanno affrontando la sfida della sostenibilità le piccole e medie aziende presenti nel distretto tessile – moda di Prato, uno dei più importanti a livello nazionale, ma anche europeo ?

Lo abbiamo chiesto a Silvia Gambi, giornalista di SoloModaSostenibile, esperta di questa materia e profonda conoscitrice del distretto tessile pratese, per comprendere in che modo le imprese tessili del territorio, si approccino alla sostenibilità ambientale, all’economia circolare e alla transizione ecologica.

Cosa significa in concreto essere un’impresa tessile sostenibile e che fa economia circolare?

Significa innanzitutto mettere in campo una serie di strategie per ridurre il proprio impatto ambientale in fase di produzione e garantire il rispetto dei diritti sociali sia all’interno della propria azienda che nelle aziende che fanno parte della catena di fornitura. La sostenibilità non è un punto di arrivo, non si arriva mai. È un viaggio, piuttosto, che è fatto di tante tappe.

Un’azienda oggi deve sperimentare continuamente nuove soluzioni, deve analizzare nuovi modelli di business. Il tema dell’economia circolare costringe le aziende a fare i conti con i materiali che trasformano, ma non basta questo. Altrimenti si cade nel tranello che sia sufficiente scegliere una materia prima riciclata per essere circolari. Non è così: deve essere preso in considerazione il materiale in entrata, il processo di lavorazione, il design del prodotto e quindi anche quello che è il prodotto finito, che deve essere realizzato con accorgimenti che lo rendano di nuovo utilizzabile alla fine della sua prima vita.

Mi piace pensare così: che un abito possa rappresentare la prima vita di un tessuto, che puoi può averne altri diverse.

Da secoli a Prato si fa economia circolare ma, oggi, questo termine significa qualcosa di diverso rispetto al passato? Ci sono realtà virtuose, nel territorio pratese, che hanno intrapreso la strada della sostenibilità e sono vocate all’economia circolare, e quindi possono essere prese a modello?

In questi mesi Prato si trova al centro di un’attenzione grandissima: è venuta la stampa di tutto il mondo per documentare quello che qui viene fatto da decenni. Prato era circolare quando tutto il mondo non sapeva nemmeno cosa significasse. Questo però non impedisce alle aziende che operano nel distretto di lavorare quotidianamente sull’implementazione delle proprie strategie di sostenibilità: c’è una grande attenzione a questo tema, tante aziende hanno le certificazioni più importanti, sono in grado di misurare il proprio impatto ambientale, fanno un lavoro quotidiano per la sperimentazione di nuovi materiali.

Prato è sempre stato un distretto, una rete di imprese connesse tra di loro: quando viene presa una direzione, tutto il sistema si muove per seguirla. Quindi non possiamo parlare di aziende circolari, ma di un distretto che ha intrapreso la strada della circolarità. Dobbiamo anche ricordare che Prato tanti anni fa si è dotata di uno dei più grandi impianti di depurazione industriale per il riciclo delle acque in Europa. Concetti come recupero e riuso fanno parte del DNA produttivo del territorio.

A partire dal 1 gennaio 2022, se nulla cambierà, in Italia sarà obbligatorio raccogliere i rifiuti tessili, negli anni successivi anche gli altri paesi membri dell’Ue, introdurranno simili obblighi nei loro ordinamenti. Cosa comporterà questo per Prato, uno dei distretti tessili più importanti d’Europa?

Potrebbe essere una bella opportunità, perché sono poche le aziende nel mondo che sanno come ricavare ricchezze da un rifiuto e Prato ha una grande esperienza in questo campo. Si tratta di capire come verranno gestiti i rifiuti tessili che saranno raccolti, quale sarà la loro destinazione. Il timore è che la raccolta serva solo per agevolare il processo di distruzione dei materiali o in ogni caso per creare materiali di poco valore che possono essere utilizzati per imbottiture o per l’edilizia. È un utilizzo importante, ma quello deve essere l’uso finale ed estremo del materiale, quando non è utilizzabile in altro modo.

Quello che rende l’esperienza di Prato straordinaria è che da un capo di abbigliamento usato o da un maglione di lana si riesce ad ottenere una fibra che può essere utilizzata di nuovo nel mondo della moda. Questo grazie alla selezione, anche manuale, del materiale e al recupero.

È fondamentale che la normativa attuativa lasci aperto il canale della donazione degli abiti usati alle associazioni di volontariato, non solo per far continuare a lavorare tante cooperative sociali che operano in questo settore, ma anche perché gli abiti donati sono la vera ricchezza. Da questi è possibile ricavare prodotti che saranno venduti nel second hand e anche materia da riciclare in vari usi.

Secondo i dati delle imprese di Prato che fanno la selezione, solo il 3% di quello che arriva dagli enti di volontariato finisce in discarica. Il resto è indirizzato in percorsi qualificati. È questo il modello che andrebbe replicato a livello nazionale.

La fondazione Ellen MacArthur ritiene che tra i driver per la ripartenza post COVID-19, ci sia il settore del riciclo dei rifiuti tessili; Prato si sta muovendo? Se sì, come?

Sembra che Euratex, che realizzerà 5 grandi hub europei per la gestione dei rifiuti tessili, abbia scelto Prato per realizzarne uno. Quindi è una grande opportunità per il distretto, che potrebbe avere l’occasione di sperimentare l’uso di nuovi materiali, mettendo a punto processi di riciclo che sono utilizzati qui da decenni.

C’è anche l’idea di creare un consorzio con le imprese che si occupano di selezione e raccolta, per renderle attori di questo sistema. Che il riciclo dei tessili sia una grande opportunità lo dimostra l’interesse che c’è adesso per la produzione pratese, non solo da parte delle imprese ma anche dal mondo accademico.

È incredibile come questo distretto, che ha resistito a tanti cambiamenti nel corso degli anni, si trovi adesso al centro di questa rivoluzione. È una bella storia italiana.

Testo a cura di Stefania Calleri

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