Moda sostenibile: intervista a Silvia Gambi di solomodasostenibile

Nei giorni scorsi Arpa Toscana ha pubblicato la “pillola di sostenibilità: vestirsi in modo sostenibile”, una serie di eco-consigli per fare riflettere su come sia possibile, anche con semplici azioni, alleggerire la nostra impronta sul Pianeta dovuta ai nostri acquisti, talvolta continui, di capi di abbigliamento e accessori vari.

La “pillola di sostenibilità: vestirsi in modo sostenibile” è stata l’occasione per rivolgere alcune domande ad un’esperta di moda sostenibile, Silvia Gambi. Giornalista, da 15 anni lavora con le imprese tessili di Prato in numerosi progetti. È autrice del podcast e del sito “Solo Moda Sostenibile” e della newsletter gratuita, in uscita ogni sabato, con tutte le novità della settimana.


Ci stiamo avvicinando alla stagione dei saldi, le promozioni ci sono già, e complice anche la Pandemia che ci ha costretto a stare a casa per un lungo tempo, la voglia di acquistare, se possibile, non manca, ma possiamo trasformare il nostro acquisto da mero gesto commerciale in atto consapevole e rispettoso dell’ambiente e delle persone?

Questa è una stagione di saldi particolari, che arriva dopo un periodo in cui non solo non sappiamo nemmeno bene cosa ci serve, ma soprattutto abbiamo fatto i conti con il nostro armadio e con quello che ci è davvero utile. Io direi che è proprio questo che deve farci da guida negli acquisti che eventualmente faremo; comprare quello che ci serveIl modo migliore è fare una lista e attenerci a quello che abbiamo indicato, resistendo alle tentazioni. I saldi sono spesso l’occasione per le aziende di svuotare i magazzini oppure di vendere capi di poco valore prodotti per rispondere alla richiesta del momento. In questa stagione, durante la quale si è prodotto anche meno, il rischio di fare acquisti poco convenienti è ancora più alto. I brand sostenibili spesso non mettono in saldo la propria merce, perché i loro prezzi sono costruiti con attenzione e non hanno una sovrapproduzione da mettere sul mercato a prezzo ridotto. Ogni capo che acquistiamo dà un impatto sociale e ambientale: il gesto più responsabile che possiamo fare è quello di acquistare solo ciò che ci serve davvero.

Possiamo veramente vivere con pochissimi capi nell’armadio, magari di qualità, oppure abbiamo bisogno di accumulare vestiti che utilizziamo poche volte e che gettiamo con estrema facilità, vista anche la loro scarsa qualità e il basso costo ?

C’è su Instagram una sfida molto interessante che si chiama #project333, che è stata lanciata da Courtney Carver, una ragazza americana che ha una storia molto interessante. La sfida è quella di creare un guardaroba composto da 33 pezzi, compresi scarpe e borse, da utilizzare per 3 mesi. In questo modo si acquistano meno cose, di migliore qualità e che sono coordinate tra loro. Naturalmente alcuni oggetti possono essere utilizzati per più stagioni Secondo Livia Firth, un capo di abbigliamento deve essere indossato almeno 30 volte, altrimenti vuol dire che non ci era utile. Indossare più a lungo un capo di abbigliamento significa anche valorizzare la qualitàscegliere con attenzione quello che indossiamo e liberarci anche dalla schiavitù del fast fashion, che cerca sempre di farci desiderare qualcosa di nuovo.

Comprare un capo d’abbigliamento riciclato o ancora meglio riciclabile, genera una sensazione di minore responsabilità rispetto alla grande quantità di rifiuti tessili che ogni anno produciamo. A che punto siamo, realmente, con il riciclo, in particolare delle fibre sintetiche che, ad oggi, rappresentano la materia prima di buona parte dei capi di abbigliamento in commercio ?

Secondo la Ellen Mac Arthur Foundation oggi al mondo vengono riciclati solo l’1% degli abiti usati, quindi c’è molta strada da fare. Gli abiti non vengono riciclati anche perché è difficile e poco conveniente farlo, se un capo non è progettato per essere riciclato: questo significa che deve essere facilmente smontabile nelle sue componenti, che deve essere a tinta unita e realizzato con materiale mono fibra. Quanti abiti oggi rispettano queste linee guida? L’abuso del termine “riciclato” ma soprattutto di “riciclabile” è al centro di numerose campagne di greenwashing: non basta l’utilizzo di un componente riciclato per definire così un capo. Per il riciclabile è ancora più complicato ed è una sfida che le giovani generazioni di designer dovranno affrontare.

Il riuso dei capi di abbigliamento sembra avere conquistato una parte di mercato, facilitato anche dalla nascita di molte piattaforme digitali, può essere una soluzione alla sovra-produzione e sovra-consumo di capi d’abbigliamento ?

C’è un vero e proprio boom del second-hand e per i prossimi anni si prevede che ci sarà una grossa crescita di questo mercato, soprattutto per i beni di lusso. Allo stesso tempo stiamo assistendo a progetti creativi che utilizzano i “deastock” per le proprie creazioni, ossia i tessuti che avanzano dalle produzioni e che così vengono riutilizzati. Lo scopo è quello di disincentivare la sovra-produzione, ma il fast fashion si basa proprio sulla capacità di innescare nuovi desideri e mandare in negozio collezioni nuove ogni settimana. Questo continuo desiderio di novità spesso lo incontriamo anche in coloro che acquistano capi vintage ogni settimana, causando emissioni per i trasporti, ad esempio. Penso che il mercato del riuso e l’upcycling siano realtà interessanti e che vanno incoraggiate, ma soprattutto dobbiamo educare i consumatori a creare un legame con quello che acquistano: un capo può essere riparato, usato, rinnovato. Prima di uscire dal nostro armadio deve superare questi step: ma di base deve trattarsi di un capo di qualità, altrimenti non potremo fare altro che gettarlo dopo il primo lavaggio.

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