Esperti, pubblico e media nella comunicazione del rischio: un dialogo senza speranza?

Il tema del rischio ha assunto negli ultimi decenni una peculiare rilevanza nel dibattito sociale e scientifico, in particolare, in un contesto contrassegnato dallo spettro della guerra fredda e della catastrofe nucleare prima e dal nascere dei movimenti ambientalisti poi, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. Altrettanto evidente è il fatto che le società attuali, nelle quali si è raggiunto un livello di sicurezza sotto molti punti di vista maggiore che in passato, sono esposte, a differenza delle epoche premoderne, da una parte ai tradizionali pericoli rappresentati dalle catastrofi naturali e, dall’altra, all’inedita prospettiva delle catastrofi provocate dagli esseri umani, o comunque legate alle loro attività, ed all’impatto della tecnologia.

Secondo una formula coniata dal sociologo tedesco Ulrich Beck, la società contemporanea è una “società del rischio” (Beck 1986), nella quale, superata la preoccupazione riguardo la scarsità dei beni e la loro distribuzione, che aveva dominato la scena sociale ed economica del XIX e prima metà del XX secolo, il problema fondamentale è rappresentato dalla necessità di limitare i rischi prodotti dalla società stessa, che sempre più hanno portata globale e portano con sé lo spettro della minaccia alla sopravvivenza della stessa umanità.

Nel passaggio alla modernità, dunque, sempre più situazioni e stati di fatto vengono attribuiti alle scelte dell’uomo: «In contrasto con tutte le epoche precedenti (inclusa la società industriale) la società del rischio è caratterizzata essenzialmente da una mancanza: l’impossibilità dell’imputabilità esterna delle situazioni di pericolo» (Beck 1986).

Anche secondo il sociologo Niklas Luhmann l’evento dannoso viene percepito sempre più come esito delle decisioni umane e sempre meno come fatalità. Per Luhmann il tema del rischio è dunque rilevante perché pone «la questione di quale idea di razionalità, di decisione, di tecnica, di futuro o semplicemente di tempo è presupposta quando si parla di rischio, oppure, in modo ancora più fondamentale, di come concepiamo la nostra società se rendiamo il rischio, che una volta riguardava soltanto i marinai, i raccoglitori di funghi e in genere persone che si esponevano ai pericoli, un problema che non si può né evitare né aggirare» (Luhmann 1991).

Un ulteriore ambito con cui è possibile indagare il concetto di “rischio” è costituito dalla difficoltà rappresentata dai diversi sistemi, scientifici e non, di pervenirne a una univoca definizione. La riflessione sul tema del rischio, soprattutto quando si muove sul piano ambientale o in quello della medicina, sembra destinata a rimanere vittima di due opposte tendenze: quella “scientistica”, secondo la quale è possibile una valutazione oggettiva e di validità universale dei rischi, e quella “antropologica”, secondo la quale non solo non è possibile un calcolo oggettivo, ma dove il concetto di rischio è intriso delle credenze profonde e dei modelli culturali che caratterizzano specifici sottogruppi della popolazione (Vineis 1999).
Sul fronte, ad esempio, dell’immaginario, il rischio e la catastrofe sono sempre stati parte delle grandi narrazioni epiche: dalle antiche storie dell’umanità fino al moderno consumo dei prodotti dell’industria culturale, eroi classici e supereroi moderni popolano mondi minacciati da diluvi, invasioni, epidemie e altre catastrofi con le quali devono cimentarsi con prove eccezionali per affermare il proprio statuto.

Ne emerge un concetto di rischio polisemico, che non può mai approdare a un’unica definizione perché afferente a molteplici e diversi aspetti, di volta in volta applicati e adattati a specifici argomenti o contesti, generando due distinti piani del simbolico: il primo è quello scientifico, denotativo, legato all’osservazione empirica dei fenomeni ed al calcolo probabilistico, mentre il secondo rimanda al connotativo, cioè alle diverse dimensioni in cui/con cui l’immaginario produce le forme della sua rappresentazione (informative, narrative, mitiche, artistiche, performative ecc.) destinate a permeare l’identità dei singoli, le culture e la società stessa (Luhmann 1996).

Possono (e, se possono, come possono) allora sincronizzarsi le rappresentazioni polisemiche con cui i sistemi della società trattano il rischio e le sue conseguenze? Oggi la tecnica e la consapevolezza delle possibilità ad essa collegate hanno occupato il terreno che prima era della natura: è cresciuto il timore per le conseguenze distruttive della tecnologia e per il rischio che viene attribuito alle decisioni, è aumentata la dipendenza del futuro dalle decisioni, facendone non più una continuazione rassicurante del passato, ma una frattura rispetto a questo (Luhmann 1991).

Detto in altri termini, la tendenziale attribuzione di tutto ciò che accade alla decisione di qualcuno e il processo di drammatizzazione che a questo si accompagna, fa sì che il futuro stesso sia percepito come rischio, un rischio sempre più difficile da calcolare in considerazione della complessità delle situazioni decisionali, dell’aumento esponenziale delle possibilità, del numero delle informazioni richieste e della scarsità del tempo per procurarsele.

Tra le conseguenze più rilevanti di questa complessità, secondo Luhmann, vi è quella di fare saltare ogni possibilità di accordo comunicativo e di consenso. Di fronte alla possibilità anche remota che ogni decisione possa in futuro causare danni gravi e irreversibili, il calcolo razionale perde importanza e sfuma la possibilità di un accordo su ciò che sia effettivamente rischioso e da evitare o su quale sia la soglia della catastrofe. In questo senso, anche la fiducia negli esperti, nelle tecnologia, nelle promesse e nella scrupolosità di altri finisce per diminuire sempre più, erosa in modo proporzionale al fatto che il pericolo non è dovuto ad eventi naturali (per esempio una pioggia di meteoriti), ma risulta dalle decisioni di altri.

Perde così di efficacia, nella società attuale, la funzione regolatrice del “contratto” quale meccanismo di compensazione di eventuali svantaggi e forma di massimizzazione del consenso in campi di attività nei quali i vantaggi e gli svantaggi delle azioni sono distribuiti in modo diseguale.
La conseguenza ultima di tale riflessione sta per Luhmann nel fatto che la comunicazione, il dialogo, l’accordo e la disponibilità di compromesso non rappresentano quindi altro che «effimere speranze», poiché la comunicazione non può aiutare «laddove domina la sfiducia ed i partecipanti si osservano l’un l’altro in base a distinzioni differenti» (Luhmann 1991).

È tuttavia vero che, a partire dalla seconda metà del secolo scorso e ancora ai giorni nostri, quella “effimera speranza” di indagare a fondo i meccanismi che regolano la percezione del rischio e di costruire una quanto più possibile efficace strategia per la sua comunicazione è divenuta un tema cospicuamente affrontato anche nel dibattito scientifico sul crisis management e sulla gestione e comunicazione del rischio.

Ma se gli studi sulla percezione del rischio, sui fattori che la influenzano e i comportamenti che ne conseguono, hanno costituito oggetto di contributi sempre più specifici, in particolare a partire dalla seconda metà del secolo scorso, e se l’importanza di tali studi è andata da allora sempre più crescendo in relazione al crescere dei rischi nella società attuale, è possibile affermare che tale percezione non rappresenta soltanto una via individuale alla definizione e alla eventuale soluzione di un problema, ma un intero processo, il cui svolgersi – pur seguendo linee distorte e basate su informazioni e stimoli lontani dai parametri scientifici – rappresenta oggi comunque un fattore sociale che inevitabilmente influenza le scelte dei decisori.

Le percezioni e le rappresentazioni sociali dei rischi sono legate a una molteplicità di fattori: le paure, l’importanza degli effetti a lungo termine, la controllabilità, e tutti gli elementi che concorrono, assieme al peso dei sistemi valoriali, delle regole esistenti, degli interessi locali, del ruolo dei media e così via, a caratterizzare l’atteggiamento verso uno specifico rischio sono diversi a seconda degli individui e delle comunità, e si modificano nel tempo (Apruzzese 2011).

Il rischio viene dunque percepito e considerato in modo diverso da gruppi diversi di persone, tanto che l’approccio al tema del rischio mostra problemi già a livello di definizione: gli studiosi, e principalmente i tecnici, lo definiscono in genere come il prodotto fra la probabilità e le conseguenze (in termini di grandezza e gravità) di un evento avverso, mentre la popolazione in generale non percepisce quasi mai il rischio in termini probabilistici, ma piuttosto come sinonimo di pericolo (Lupton 2003).

Il concetto di rischio varia anche a seconda di quale tipo di danno è considerato rilevante (Lupton 1999): per gli studiosi assumono rilevanza soltanto gli aspetti che presentano la caratteristica della misurabilità o della descrivibilità quantitativa, mentre la percezione di massa di un rischio considera rilevanti serie di fattori e conseguenze assolutamente diverse, per lo più supportate dalla preesistenza o dalla creazione ex novo di immagini mentali, sia personali che collettive, sulle quali il parametro quantitativo ha ben scarsa incidenza.

È inoltre ampiamente dimostrato come i processi di comunicazione di massa inerenti la conoscenza di fattori di rischio e fenomeni ad essi connessi, scaturita soprattutto dai giornali, dalla radio e dalla televisione, riesca a condizionare i giudizi e le opinioni della collettività.

Il web, specie nella sua evoluzione del 2.0 e del social networking, è un altro mezzo di grande rilevanza sul piano comunicativo: è uno strumento povero ad alto potere di democrazia, dal momento che, oltre a funzionare da cassa di risonanza di quanto comunicato da tv e giornali, è anche luogo di smisurata produzione di informazione (a volte, così tanto da esporre l’utente medio a sovraccarico informativo).

Un ulteriore aspetto da prendere in considerazione è il divario tra ciò che viene appreso dai media e ciò che viene invece conosciuto attraverso l’esperienza diretta: nella società dell’informazione la sfera delle esperienze direttamente vissute dalle persone appare essere ben limitata rispetto a ciò di cui si giunge a conoscenza tramite la mediazione della comunicazione di massa; i media, in definitiva, supportano e modellano l’immagine del mondo (non importa se vicino o lontano, sia nella dimensione spaziale che temporale, sia che vi si entri in contatto diretto o meno). In un’ottica socio-psicologica, è noto come gli effetti dei media si strutturino in gran parte a livello inconscio: in questo senso le persone sono inconsapevolmente indotte a fondere le proprie percezioni dirette con quelle filtrate dalla comunicazione mediatica, così che queste finiscono per apparire espressione diretta del proprio pensiero e della propria esperienza (Noelle Neumann 1984).

In ogni caso, lo si voglia o meno, i mass media agiscono essenzialmente da filtro tra gli accadimenti e il grande pubblico, modulano le informazioni e il rapporto stesso tra istituzioni/esperti e stakeholder – siano essi partner o destinatari – e costituiscono essenzialmente un interlocutore ineludibile per chi comunica il rischio; se anche in molti casi enfatizza le notizie in modo allarmistico a dispetto del contenuto informativo, è pur vero che il sistema dei media contribuisce a diffondere la “subcultura della crisi” (Lombardi 2007), ovvero un insieme di conoscenze comuni (codici, linguaggi, informazioni) che favoriscono il comportamento di adattamento durante l’emergenza.

Non tanto i rischi in sé, dunque, quanto le immagini mentali che risultano dalla loro percezione, generano reazioni e comportamenti rilevanti sia sul piano individuale che su quello sociale. Conoscerli e studiarli è divenuta nel tempo una necessità centrale al fine di comprendere come le persone percepiscono un rischio e pianificare di conseguenza le strategie di comunicazione.

Articolo di Thomas Valerio Simeoni

Bibliografia

Apruzzese F.S. (2011), La percezione del rischio. Metodologie e casi di studio, Collana I Quaderni di Moniter, n. 5/2011, Regione Emilia Romagna, Bologna

Beck U. (1986), Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am Main, trad. it. La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma [2000].

Lombardi M. (2007), Rischio ambientale e comunicazione. Franco Angeli, Milano.

Luhmann N. (1991), Soziologie des Risikos, Berlin, trad. it. Sociologia del rischio, Mondadori, Milano [1996].

Luhmann N. (1996), Die Realitat der Massenmedien, Opladen, trad. it. La realtà dei mass media, Franco Angeli, Milano [2000].

Lupton D. (1999), Risk. Routledge, NY.

Lupton D. (2003), Il rischio. Percezione, Simboli, Culture, Bologna, Il Mulino.

Noelle Neumann E. (1984), The Spiral of Silence. Public Opinion: Our Social Skin, University of Chicago Press, Chicago.

Vineis, P. (1999), Nel crepuscolo della probabilità. La medicina tra scienza ed etica, Einaudi, Torino.

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