I problemi crescono più velocemente delle soluzioni?

I fenomeni legati alla crisi ecologica in corso mostrano una realtà preoccupante di crescente distacco tra la dimensione dei problemi e le capacità di affrontarli. Sono urgenti una risposta globale e una governance condivisa, ma soluzioni eco-tecnocratiche imposte dall’alto sarebbero fallimentari. Karl-Ludwig Shibel in Ecoscienza 5/2017.

Earth in the balance è solo l’affermazione più conosciuta di una percezione della sostenibilità tanto diffusa, quanta sbagliata, cioè che idealmente le politiche ambientali dovrebbero portare a un nuovo equilibrio globale tra le attività umane e il mondo naturale. Questo equilibrio non esiste e un approccio che cerca di ristabilirlo sul pianeta imbocca la strada sbagliata che porterà da qualche parte, ma sicuramente non verso una Earth in the balance. In una tale prospettiva, la crisi ecologica è il risultato di un forte squilibrio causato dalle interazioni dell’uomo sull’ambiente. La concentrazione di CO2 in atmosfera è arrivata a oltre 400 ppm, con relativo aumento degli eventi meteorologici estremi. Gli uragani Harvey, Irma, Jose e Maria, un’estate di estrema siccità in Europa, violenti tempeste e piogge torrenziali in autunno sono i sintomi di una crisi ecologica sempre più profonda e sempre più estesa. Molti indicatori puntano su una crescita rapida dei problemi ambientali a livello globale che spesso finiscono in degli scenari di un mondo “on course for ecological Armageddon”, come titola The Guardian in un recente articolo.

In modo meno drammatico, viene regolarmente postulata la grande serietà della situazione, ma l’umanità potrebbe salvarsi, se da subito cambia rotta. Rimangono tre anni, al massimo cinque anni. La descrizione dei fenomeni riflette una realtà preoccupante di crescente distacco tra la dimensione dei problemi e le capacità di affrontarli. Rimane da vedere quali strategie implicite o esplicite vengono proposte per riportare l’umanità sulla strada della sostenibilità.

Dalla “primavera silenziosa” ai “confini planetari”
Il rapporto Brundtland del 1987 ha compiuto il primo grande tentativo di presentare una via d’uscita dalla crisi ecologica moderna che 25 anni prima, nel 1962, aveva trovato una drammatica voce in Rachel Carson con la sua Primavera silenziosa e una prima analisi quantitativa 10 anni dopo con il Rapporto sui limiti dello sviluppo di Donella e Dennis Meadows. Rachel Carson, come anche il gruppo di studiosi del Club di Roma e altri ecologisti della prima ora, confidavano nel convincimento delle élite e della popolazione generale e in un cambio di coscienza che sarebbe stato la forza propellente della trasformazione verso una terra in equilibrio. Questo approccio illuministico – basta spiegare bene e con evidenza scientifica convincente i pericoli e rischi che l’umanità ha di fronte a sé e politica, economia e società reagiranno in modo appropriato – questa speranza non ha avuto riscontro nella realtà.

Più recentemente è stato l’idrologo Johan Rockström che ha sviluppato con il suo team il modello dei planetary boundaries, confini planetari, che stiamo trasgredendo, portando nelle sue parole la natura alla bancarotta. Rockström osserva nel sistema Terra nove subsistemi (cambiamento climatico, perdita di biodiversità, variazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, acidificazione degli oceani, consumo di suolo e di acqua, riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, diffusione di aerosol in atmosfera e inquinamento chimico) ipotizzando uno “spazio operativo sicuro” e – con tutti i problemi metodologici di quantificazione che qui non interessano – arriva alla conclusione che per tre subsistemi (cambiamento climatico, biodiversità e ciclo dell’azoto) abbiamo già superato la soglia.

Il rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo prima e il modello del sistema Terra e dei confini planetari dopo hanno avuto un’influenza enorme sul discorso ecologico. Poche sono le presentazioni della crisi ecologica contemporanea dove manca la slide del grafico “A safe operating space for humanity”. Questo modo di inquadrare il problema rivolge l’attenzione sulla situazione globale e chiede una governance mondiale per tornare nello “spazio operativo sicuro per l’umanità”. L’accordo di Parigi ha dato un’altra spinta e un senso di urgenza alla necessità di trovare una risposta globale allo sviluppo sostenibile di fronte a possibili tipping points e in vista dei planetary boundaries.

Le minacce dell’Antropocene richiedono risposte complesse, che in questa visione possono solo nascere dal rafforzamento della Earth system governance, in uno sforzo comune della comunità scientifica e dei grandi poteri su questa terra. Questa descrizione della crisi ecologica si basa su solide evidenze scientifiche, accessibili a verifiche empiriche, che danno un’immagine sempre più articolata e precisa.

Ecologia, democrazia, partecipazione
La conclusione che la soluzione si trovi in una Earth system governance, invece, si basa su implicazioni politiche ed etiche molto discutibili che ricadono nel loro grezzo pragmatismo addirittura indietro al Rapporto Brundtland. Quello che contraddistingue questo documento di ormai 30 anni fa è lo sguardo integrato che prende in considerazione i diritti intergenerazionali, i diritti allo sviluppo dei poveri e più in generale i diritti di tutti a una vita produttiva e sana, e partendo da una prospettiva socioecologica affronta la sostenibilità come un processo continuo, aperto verso il futuro e portato avanti democraticamente da una cittadinanza consapevole e capace di gestire il proprio futuro. “Yet in the end, sustainable development is not a fixed state of harmony, but rather a process of change, in which the exploitation of resources, the direction of investments, the orientation of technological development, and institutional change are made consistent with future as well as present needs.” (30)
Una visione di Earth system governance che segue “imperativi ecologici” e in ultima conseguenza riflette ad alta voce se mettere la democrazia per un certo periodo on hold (James Lovelock), sognando una transizione controllata verso un nuovo stato di equilibrio sostenibile del pianeta, è pericolosa e non funzionerà.

Quando mai l’umanità come tale ha affrontato in modo intenzionale e mirato un’impresa, figuriamoci controllato l’andamento o raggiunto l’obiettivo? In un periodo di proliferazione di governi autoritari e di bassa fiducia nelle democrazie liberali, le tentazioni di sperare in una soluzione eco-tecnocratica imposta dall’alto è comprensibile, ma inaccettabile oltre che fallimentare.
Negli ultimi tre decenni la scienza ha fatto immensi progressi fornendo dati sempre più precisi e informazioni sullo stato dell’ambiente che indicano in modo inequivocabile la necessità di una trasformazione tecnologica, politica, economica e culturale. Anche le conoscenze sulle soluzioni – agricoltura ecologica, mobilità dolce, energia intelligente e più in generale un futuro a carbonio zero – sono cresciute enormemente.
Un nuovo equilibrio va trovato nei rapporti tra uomo e uomo e non tra uomo e natura (Wolfgang Sachs). L’approccio sistemico quantitativo di focalizzarsi sulla forbice tra lo stato effettivo dei problemi e le capacità di risoluzione porta sulla strada sbagliata di delusione del controllo, mitologie strumentali e imperativi “non-negoziabili” (Rockström).

“Sostenibilità” è diventato un concetto guida attraverso lotte democratiche contro i rischi sul posto di lavoro, i pericoli del nucleare, il degrado delle risorse, le sostanze nocive nel cibo e nell’aria, partendo da gruppi di cittadini che si sono opposti, movimenti sociali che hanno dato risonanza a queste ribellioni, per trovare solo in seguito qualche riconoscimento nelle sfere alte della politica e dell’economia. Lunga vita al Rapporto Brundtland e alla sua visione di sostenibilità come “greater democracy” attraverso “effective citizen participation” (28).

Karl-Ludwig Schibel Coordinatore Alleanza per il clima Italia

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